Mi sono sempre ripromessa di comunicare con sincerità, di raccontare alla mia community i risvolti della mia vita, fin dove possibile, con trasparenza.

Poi ho iniziato a nascondere, a omettere.
A metter su un sorriso mentre la testa pulsava per giorni dopo la violenza fisica. Lasciavo i capelli sciolti perché avevo segni di mani nel collo e il cuoio capelluto dolorante perché erano stati tirati, quei capelli. Sentivo l’umiliazione, la saliva degli sputi sul volto. Non basta l’acqua a lavarsi via il senso di disagio del non saper reagire. Non basta un filtro instagram a nascondere gli occhi affossati e vuoti.

Parlavo del resto alla mia community: dei luoghi e della vita che scorreva, e molti mi dicevano “ beata te, vorrei la tua vita”. Un altro schiaffo.

Qualcuno su Instagram mi diceva cose belle, si complimentava per la mia creatività, per i miei pensieri e io raccoglievo quelle uniche carezze, mentre dentro casa mi sentivo solo dire che ero una pazza che non sapeva stare al mondo.

Non potevo condividere perché per anni ho subito senza neanche accorgermene. Ho nascosto polvere sotto il tappeto finché non ho rischiato di morire soffocata.

Non potevo condividere perché dovevo proteggermi da una persona violenta.

Non potevo condividere il mio dolore perché ancora lo proteggevo.Non potevo condividere perché avevo paura che, anche dopo il divorzio, mi avrebbe trovata dovunque.

Ho costruito un lavoro sulle mie esperienze di viaggio e ora devo aver paura di condividere dove mi trovo. Apro ogni DM sperando che non sia lui dall’ennesimo profilo fake.

E oggi, non posso condividere perché potrei essere io quella denunciata se parlassi di cosa mi è successo.

Ma sono grata, mi sono riscoperta, sono rinata, mi conosco, oggi delineo i miei confini. Ho riunito quelle parti di me, le ho perdonate, accolte, accudite.

E ho scoperto che le persone percepiscono il tuo dolore anche senza bisogno di sapere tutto.

La mia community ha capito, ha letto tra le righe. Tra sopravvissute e anime affini ci si capisce senza bisogno di parole.

I always promised myself that I would sincerely communicate my life to my community.

Then I began to hide, to omit.
To put on a smile as my head throbbed for days after the physical violence. I would leave my hair down because I had hand marks in my neck and a sore scalp because it had been pulled, that hair.

I would talk about “the rest” to my community: about places and trips, and many would say "You are so blessed, I desire so bad to have your life". Another slap in the face.

Someone on Instagram would say nice things to me, compliment my creativity, my thoughts, and I would collect those rare caresses, while inside the house I would only hear that I was a crazy person who didn't know how to be in the world.

I couldn’t share because for years I suffered without even realizing it. I swept dust under the carpet until I was almost choked to death.

I couldn’t share because I had to protect myself from a violent person.

I couldn’t share my pain because I still protected him.I couldn’t share because I was afraid that even after the divorce, he would find me everywhere.

I built a work on my travel experiences and now I have to be afraid to share where I am. I open every DM hoping it’s not him from yet another fake profile.

And today, I cannot share because I could be the one sued if I talk about what happened to me.

But I am grateful, I have rediscovered myself, I have reborn, I know myself, today I delineate my boundaries. I have brought those parts of me together, I have forgiven them, welcomed them, cared for them.

And I have found that people feel your pain even without needing to know everything.

My community understood, read between the lines. Between survivors and like-minded souls we understand each other without the need for words.